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La morte di Sandro Castronuovo
di Mimmo Carratelli (da: Roma del 23.08.2017)
Si è spento il giornalista Sandro Castronuovo. Aveva 83 anni. È stato il mio amico più caro. È stato un giornalista di razza, come si diceva ai nostri tempi. Il mestiere nel sangue, nel cuore. Uno stile di scrittura asciutto, incisivo.

Voglio ricordarlo sul “Roma” che è stato il nostro giornale quando i direttori si chiamavano Alfredo Signoretti e Alberto Giovannini. Quel giornale era una famiglia. Giornalisti e tipografi: una cosa sola, uniti da un grande entusiasmo.

Era il 1957 e Sandro, il mio amato, carissimo Sandrino, fu inviato in Sardegna per una serie di “servizi” sull’isola. Lavorava in cronaca e proprio al suo posto, per sostituirlo temporaneamente, mi chiamò il redattore capo Ludovico Greco, amico di mio padre.

In seguito quell’assenza di Sandrino e la chiamata di Lulù, il nomignolo affettuoso di Greco, si trasformarono nella mia assunzione al “Roma”.

Fu Alberto Giovannini a consegnarci il “diploma” di giornalisti professionisti, credo lo stesso giorno, a me e a Sandro, con una festosa cena in un ristorante sul mare di Torre del Greco.

Sandrino tornò dalla Sardegna e fu immediata la nostra intesa, la nostra amicizia. Eravamo coetanei. Sandrino era un bel ragazzo dai capelli folti e nerissimi. Era della Sanità e di una famiglia numerosa.

Per i suoi fratelli, e ho soprattutto Pino nel mio cuore, cineoperatore alla Rai di Napoli, Sandrino fece molto.

Io ero un po’ scapestrato e ammiravo Sandro per il suo impegno severo, il sostegno concreto alla famiglia e, soprattutto, per il suo lavoro al giornale, intenso, continuo, invidiabile.

Eravamo della stessa altezza, stavamo sempre insieme, anche fuori dal giornale, e Franco Scandone, inventore di tutti i supplementi del “Roma”, non solo quello sportivo, ci chiamò Castore e Polluce. Eravamo “i gemelli del Roma”.

Allora la cronaca era al piano ammezzato del Palazzo Lauro dov’è oggi l’albergo Romeo. Giovanni Romei era il capocronista, ma il motore della cronaca era Bruno Stocchetti, il giornalista più veloce alla macchina per scrivere che abbia mai conosciuto.

Sandro e io avevamo i tavoli di fronte, poi c’erano la deliziosa, delicata e in là con gli anni Margot Ricci, che curava la “cronaca bianca”, Peppino Di Bianco che divenne il primo fantastico resocontista dei programmi televisivi (memorabile il suo “servizio” da Sanremo per la morte di Tenco), Luciano Bruschini.

A una certa ora, dalla sala stampa della Questura, piombava in redazione Enzo Perez, che scriveva con la mano sinistra, un reporter che teneva in scacco polizia e carabinieri e aveva un archivio di “cronaca nera” che i due corpi di sicurezza gli invidiavano e al quale spesso attingevano.

Sandro, pur dotato di una finissima ironia e di un dolce sorriso, ci teneva al guinzaglio limitando le nostre mattane, ma non si sottraeva al quartetto (Stocchetti, Perez, Sandro e io) che, dopo la chiusura dell’ultima edizione del giornale, inventava sempre qualcosa come andare a giocare con i primi bigliardini del dopoguerra apparsi a Castellammare.

Ci andavamo con l’utilitaria guidata da un sonnolento Bruno Stocchetti che, una volta, piantò l’auto sui binari della Circumvesuviana addormentandosi di colpo sul volante.

Con Sandro andavamo insieme al cinema e, molto spesso, finito il lavoro al giornale, ci allungavamo sull’arenile di Mergellina. C’era un capanno di pescatori dove cucinavano alla buona gli spaghetti alle vongole.

Parlavamo dei nostri sogni giovanili, delle nostre ambizioni. Sognavamo “in grande”.

Al giornalismo dedicavamo tutto il nostro tempo e, allora, era un mestiere selezionato. Saper scrivere era essenziale. In modi diversi, Sandro e io cercavamo di affinarci giorno dopo giorno. La passione era grande.

A quei tempi, Napoli era una città straordinaria che viveva in strada fino alle tre, le quattro di notte.

Un allegro paese con una gran voglia di vivere dopo la guerra. Una città fantastica. Si pubblicavano sei, sette quotidiani.

Sandro e io ci facemmo tentare da un invito della Rai di Napoli diretta da Ernesto Fiore. Facemmo un po’ di pratica col microfono. Ennio Mastrostefano e Baldo Fiorentino, che avevano cominciato al “Roma”, erano i capisaldi della redazione napoletana che stava trasferendosi dal Palazzo Singer, al corso Umberto, alla nuova sede di via Marconi.

Realizzammo qualche buon “servizio”, sotto la guida dell’indimenticabile Elefante che “curava” con pazienza la nostra voce.

Fu un’esperienza cui rinunciammo presto, perché la “carta stampata” era la nostra “malattia”.

Questo per dire che Sandro e io siamo stati legatissimi sul percorso giornalistico.

Come la volta che andammo a Milano perché sognavamo il “Corriere della sera” e avevamo l’ambizione di arrivarci.

Non ne avemmo l‘occasione e dedicammo tutta la nostra vita al “Roma” dove restammo per più di vent’anni, fino alla chiusura del giornale nel 1980.

Una vita insieme, caro Sandrino, col tesoro immenso della tua comprensione, dei tuoi consigli, della tua amicizia sincera.

È stata una bella vita in un giornalismo romantico e d’avventura che concedeva molte opportunità.

Forse, a quei tempi, non eravamo più di mille i giornalisti in Italia e noi più giovani avevamo molti “modelli” cui ispirarci e grandi “maestri” che ci guidavano.

Erano tempi lenti in cui era più facile insegnare e trasmettere il mestiere da una generazione all’altra.

Così è passata una vita. Dopo la chiusura del “Roma”, l’anno del terremoto, Sandro e io prendemmo strade diverse, ma tenace, intensa, dolcissima continuò ad essere la nostra amicizia.

Ci davamo spesso appuntamento per un pranzetto al Borgo Marinari ricordando i “vecchi tempi”.

I nostri capelli divennero bianchi. I nostri cuori rimasero giovani perché nel giornalismo avevamo vissuto una bella vita.

Ciao, Sandrino. Sei nei miei pensieri e nel mio cuore come se non sia successo niente.
Ma ora c’è un telefono muto che non posso più chiamare.

E le lacrime, Sandrino, perché mi hai lasciato solo.

22/8/2017
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