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Cultura
Era de… marzo, io no, nun mme ne scordo
I primi centocinquant’anni di Salvatore Di Giacomo
di Emanuela Cicoira
“Marzo: nu poco chiove
e n’ato ppoco stracqua
torna a chiovere, schiove,
ride ‘o sole cu ll’acqua”


Vi siete mai chiesti chi fosse Salvatore Di Giacomo? Io, in verità, solo di recente.

Fino a pochi mesi fa il suo nome mi avrebbe fatto venire in mente, nel seguente ordine passibile di variazioni sul momento: 1. La poesia “’O strunz” recitata dal maestro Sperelli (Paolo Villaggio) al ragazzino nel film della Wertmüller “Io speriamo che me la cavo”; 2. “Era de maggio” nella celebre interpretazione di Roberto Murolo; 3. “Assunta Spina”, vecchio film muto con la Bertini, nonché drammone-sceneggiata a forti tinte dalla trama decisamente inattuale (che la protagonista venga sfregiata in viso dal fidanzato per aver ballato con un altro pare un po’ roba dell’altro mondo); 4. La sezione Lucchesi Palli Spettacolo della Biblioteca Nazionale di Napoli, di cui Di Giacomo fu per anni responsabile (casuale scoperta avvenuta sul posto).

Dunque, se qualcuno mi avesse chiesto chi fosse Di Giacomo, avrei risposto, molto genericamente: un poeta.

Castel dell’Ovo, pochi mesi fa. Alla presentazione dell’ennesimo libro su Totò, un professore dell’Università di Lecce sostiene che il Principe sia da considerarsi il più grande poeta napoletano del Novecento. Ma nell’opposizione tempestiva di un accorto docente genovese, il nome di Di Giacomo spodesta il popolare autore di “’A Livella”, con interessante diatriba accademica conseguente.

Durante quell’incontro, trasformatosi in un omaggio alla cultura napoletana tutta, buona parte dei presenti, me compresa, avrà avuto qualche istante di smarrimento – ma Di Giacomo sarà mica quello di “Era de maggio”?… – prima di focalizzare il vero elemento di discussione: la poesia come dimensione artistica ed espressiva. Alla fine però avrà realizzato che, se Totò e “Malafemmena” sono inscindibili, mentre spesso si dimentica chi abbia scritto il testo di “Marechiare” o di “’E spingole frangese”, è fondamentalmente per via della discriminante dell’immagine. Semplificando a fini esplicativi, il primo ci ha messo la faccia (e che faccia!); il secondo, non era il suo mestiere, ma pur volendo, l’avrebbe reso noto assai meno, essendo vissuto decenni prima. Ed è rimasto uno di quei tanti casi in cui la fama del prodotto artistico ha sovrastato quella dell’autore.

Allora siamo equi, almeno oggi, approfittando del suggerimento di una ricorrenza. Chiediamoci chi era Di Giacomo…

La sua, di faccia, era baffuta e paciosa, messo che la vecchia foto qui a fianco gli renda giustizia. Nacque a Napoli il 12 marzo di 150 anni fa e vi morì nel 1934. Il padre tentò di avviarlo alla professione medica. Voi ve lo immaginate il poeta delle “rarefatte atmosfere crepuscolari”, cantore della luna e dell’amore, che “diceva: «Core, core! core mio, luntano vaje, tu mme lasse, io conto ll'ore… chisà quanno turnarraje!»”, alle prese con la vivisezione di un cadavere? Il poveretto, si narra, molto comprensibilmente svenne, e grazie a Dio mandò al diavolo l’anatomia in favore della scrittura.
 
Fu giornalista e bibliotecario, autore di testi teatrali resi celebri dal cinema (“Assunta Spina” di Pastrone, del 1915) e dalla televisione (“’O mese mariano” con Titina De Filippo). Il dialetto napoletano della sua prosa realistica, delle “Mattinate napoletane”, de “La Mala Vita”, raccontava una città che nella musica e nel teatro ha sempre trovato se stessa. E la raccontavano i suoi versi; versi musicali in sé – tanto di cappello agli autori delle canzoni più belle, Mario Costa ed Enrico De Leva, ma lui gliele servì su un piatto d’argento…

“Scetate, Carulì, ca l'aria è doce.
quanno maie tanto tiempo aggio aspettato?
P'accompagnà li suone cu la voce
stasera na chitarra aggio portato”


Da Salvatore Di Giacomo abbiamo ereditato affreschi profondi, lontani dal bozzetto verista stereotipato e lindo, pieni, invece, delle sfumature della realtà. Suggestioni di tradizione, echi della letteratura alta, colore locale… Tanta di quella Napoli, sofferta e verace, coi suoi vicoli e le sue carceri, i maschi d’onore e le femmine passionali e romantiche, si identificava in lui, e viceversa (“e diceva: «Core, core!… »”). Un’importante fetta – ma una bella grossa! – dell’immensa cultura della città, l’aveva autografata per sempre.

Perciò, che “era de marzo”, io mo, nun mme ne scordo

Se qualcuno mi chiedesse chi era Di Giacomo, risponderei, molto coscienziosamente: il più grande poeta napoletano del Novecento.

12/3/2010
  
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