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Cultura
Ritorno da un viaggio duro e difficile
di Franco Polichetti
Dedico questo mio primo scritto, dopo il ritorno su queste pagine, a Voi tutti cari amici, come da me promesso.

Agli uomini perché ne facciano tesoro, alle amiche come auspicio ad essere imprescindibili, sagge ed amorevoli protagoniste del nostro futuro, nella misura in cui noi uomini sapremo, sempre più intensamente, amarle, esaltarle e venerarle.

Eviterò la tentazione di addentrarmi nell’intricato campo delle ipotesi sull’origine della famiglia patriarcale che alcuni antropologi, a partire dal XIX sec., fanno derivare, come reazione, da un originario matriarcato che l’avrebbe preceduto.

Tesi questa non universalmente condivisa ma pur tuttavia , secondo molti, avvalorata dalla considerazione che deve esserci stata anche qualche ragione se in origine, e non può essere messo in dubbio, sono esistite divinità femminili primordiali come la Dea Madre, dai molti appellativi, che caratterizzò un lungo periodo di tempo dal 35.000 al 3000 a. C. l’italica Mater Matuta, le Amazzoni, mitiche guerriere abitatrici delle rive del Termodonte In Cappadocia (Asia Minore) che rendevano schiavi tutti gli uomini che catturavano e poi ancora la filiazione matrilineare, cioè la discendenza uterina che era quella certa in una fase storica in cui l’ingravidamento femminile era ancora un oscuro mistero.

Tutte queste osservazioni confermerebbero, secondo questa corrente di pensiero, l’esistenza di un periodo iniziale della civiltà umana, in cui dominava il matriarcato mentre l’uomo restava in secondo piano.

Quando però il rapporto fra l’amplesso e la gravidanza fu una certezza questa svolta determinò un miglioramento della condizione dell’uomo al quale si riconobbe il merito, che fino ad allora era stato attribuito ai fiumi o ai venti. di essere lui il fecondatore della donna.

Da quel momento ebbe inizio un rito: la ninfa tribale, ovvero la donna ritenuta la più bella della tribù, veniva eletta regina e si sceglieva ogni anno, tra i giovani della sua cerchia, il suo amante che diventava per quell’anno il re e il simbolo della fertilità più che lo strumento del suo piacere.

Il giovane veniva poi sacrificato alla fine dell’anno affinchè il suo sangue sparso nei campi rendesse fertile anche la terra.

Così la regina, ogni anno, sceglieva un nuovo giovane ed in tal modo, secondo il rito, veniva perpetuata la specie ed assicurata la fertilità dei campi.

Tutti questi elementi sono stati testati, da fonti mitologiche ed archeologiche, frutto delle ricerche e degli studi di molti autori a partire, come innanzi detto, dal XIX sec.

Tra essi cito Bachofen (Il Matriarcato) e poi nel XX sec. Graves (La Dea Bianca) ed ancora Maria Gimbutas (Il Linguaggio della Dea).

Ma qui arresto il mio discorso su una presunta età del matriarcato per dedicarmi alla vita ed alla condizione della donna nella Grecia antica, in età di piena affermazione del patriarcato.

È opinione comune e diffusa che la donna nella Grecia antica fosse una relegata tra le pareti dell’oicos, quasi una prigioniera rinchiusa nella parte più intima dell’abitazione, nel gineceo: ma proprio così non è.

Per chi non ha studiato la lingua greca specifico che il termine oicos si traduce in italiano molto semplicemente con casa o abitazione ma esso ha un significato molto ricco e molto complesso nella civiltà ellenica.

Vediamo perciò che cosa intendevano più specificamente i greci con oicos?

Sostanzialmente i greci hanno dato due accezioni, ovvero significati di oicos: secondo la prima accezione l’oicos era la forma di riparo “artificiale” costruito per difendersi dalle intemperie naturali e dalle insidie sociali (si tenga presente che le tribù non erano tutte amiche fra loro quindi bisognava proteggersi da possibili aggressioni e saccheggi).

Essa comprendeva oltre la costruzione in muratura anche l’insieme dei beni e delle proprietà agropecuarie esterne all’edificio, cioè una certa estensione terriera, circoscritta, per praticarvi l’agricoltura e l’allevamento degli animali.

Secondo l’altra accezione l’oicos rappresentava il contenitore concreto e visibile delle relazioni umane, infatti al suo interno si conservavano e si praticavano l’insieme delle regole e delle tradizioni che i suoi componenti avevano ereditato e intrattenevano tra loro.

Sostanzialmente una comunità di viventi che agiva secondo le consuetudini del proprio passato finalizzato ad un coerente futuro: memoria degli antenati e riferimento per i discendenti, con gli dei e i demoni domestici (Lari e Penati) custodi e protettori dell’oicos e della famiglia.

L’oicos in quanto insieme di beni agricoli ed animali, esterno al perimetro delle mura domestiche, era dominio dell’uomo; in quanto attività e servizi svolti all’interno costituiva invece il tradizionale regno della donna i cui compiti precipui consistevano nell’assicurare la continuità della stirpe e quindi partorire e allevare i figli, nel filare e tessere e nel comandare la servitù organizzandone e dirigendone il lavoro.

Questo sistema “diarchico” di distinzione delle funzioni e dei ruoli lo si coglie soprattutto nelle fonti letterarie più antiche come ad esempio in Omero quando narra l’incontro tra Ettore e la sua amata Andromaca alle porte Scee nell’imminenza del duello in cui dovrà affrontare Achille.

Ecco testualmente (Iliade libro VI) come Ettore amorevolmente invita la sua consorte a ritornare a casa alle sue abituali occupazioni: “Ma ora va a casa e torna alle tue occupazioni, al fuso ed al telaio ed alle ancelle ordina di badare al lavoro; alla guerra penseranno gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, ed io più di ogni altro”.

Le donne dunque non sono prive di diritti anche se limitati a quelli domestici, cioè “oikionomikoi”, termine con cui si indica l’arte di gestire bene un oicos.

La monogamia è la pratica normale che predomina nei poemi omerici normalmente l’uomo ha una sola moglie. Gli eroi che siano Greci (Agamennone Ulisse, Menelao) o troiani (Paride, Ettore) hanno una sola sposa.

Oltre che per ragioni affettive esse non costituiscono affatto per il marito puri strumenti del suo volere destinati solo alla riproduttività ed all’organizzazione della casa, totalmente carenti di una propria volontà.

Ne sono un esempio Ecuba, Penelope, Andromaca, e perfino le adultere Clitennestra ed Elena, e proprio di quest’ultima, che nella regia di Priamo gode la condizione di sposa legittima di Paride apprendiamo dal significativo colloquio con il suocero, raccontato da Omero nel libro III dell’Iliade, che essa era trattata dal suocero come una figlia ed Elena gli dimostrava il rispetto ed il timore che sono dovuti a un padre. Tutto ciò nonostante fosse condannata dall’opinione generale per il suo adulterio.

Anche il caso delle concubine di Priamo, che è un’anomalia, ne costituisce un’ulteriore prova, perché se Ecuba è la moglie più importante, le altre “spose” del re gli hanno dato figli altrettanto legittimi e quindi non possono essere considerate alla stregua di prostitute.

E non vorrei tacere della libertà di Nausicaa, e della poetessa Saffo cui era caro l’amore omosessuale che praticava manifestamente con le allieve del suo Tiaso.

Dunque fin qui, a sostegno che in buona misura anche nell’antica Grecia, la donna godeva già di una certa indipendenza e autorità, ho fatto riferimento ai poeti che hanno parlato di mogli di eroi, di regine e delle loro discendenze: tutte donne eccezionali, anche se molto diverse tra loro, ma ben poco i poeti ci hanno detto di ancelle e di donne comuni.

È lecito quindi chiedersi: ma tutta quest’altra numerosa fascia di donne godeva delle stesse prerogative delle fasce più alte?

Nella maggioranza dei casi, esse compaiono anonimamente, all’ombra della padrona di casa, occupate alla filatura ed alla tessitura, ma all’occorrenza anche al trasporto dell’acqua per le abluzioni degli ospiti dei quali erano le sole ad occuparsi.

E qui ci è d’aiuto la descrizione della scena all’inizio del libro IV dell’Odissea, quando Telemaco giunse con i suoi compagni a Sparta per conoscere notizie del padre Ulisse: “Essi entrarono nei bagni per lavarsi in levigate conche, e dopo averli detersi e unti d’olio, le ancelle li coprirono di fluttanti manti”. La scena si rinnova ogni volta che un ospite straniero giunge nel palazzo di un eroe.

Alcuni secoli più tardi lo storico Senofonte scrive un dialogo: L’Economico, in cui il protagonista è Socrate ed il suo interlocutore un certo Iscomaco, padrone di una vasta proprietà.

Nell’oicos di Iscomaco il lavoro all’interno della casa è affidato al controllo ed alla direzione della sua sposa, una modesta padrona di casa, ma la gestione le deriva da un sentire “regale” che la rende in grado di comandare e di farsi ubbidire.

La moglie di Iscomaco non è una regina e Iscomaco, come la moglie, pur essendo ricco e rispettato, non è che uno dei trentamila cittadini di Atene.

Termino qui la mia trattazione che vuole essere un’esaltazione storica delle capacità e funzioni della donna e uno sprono agli uomini a rispettarne la persona e le qualità; in una parola ad amarla per quello che è per ciò che sa offrirci con il sublime atto della maternità.

Ben altro spazio avrebbe meritato questo nobile argomento solo mi auguro di non essere giudicato noioso.

17/3/2019
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