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Cronaca
Un morso alla Grande Mela
13 - Ma che freddo fa
di Angela Vitaliano
Come tanti italiani che vivono a New York, anche io, quest’anno, ho trascorso le vacanze natalizie “affacciata” al Mediterraneo e, come tutti, mi sono rammaricata della pioggia insistente che poco spazio ha lasciato al tiepido sole che ci accompagna solitamente anche nel pieno dell’inverno.

Pioggia tanta ma temperature primaverili che mi hanno fatto sentire un po’ come Toto’ e Peppino nella famosa scena del loro arrivo a Milano con colbacco e cappottoni. A New York avevo lasciato, infatti, temperature di poco sotto lo zero e un panorama bianco candido di neve. A Madrid ho cominciato a sudare, a Roma avevo messo meta’ dei miei vestiti in valigia. Niente, pero’, in confronto al ritorno, quando Roma mi ha dato l’arrivederci con temperature intorno ai 17 gradi e New York, senza neppure piu’ il calore delle luci natalizie, mi ha tramortito con i suoi meno dieci di termometro ma meno quindici percepiti.

Potendo avrei aperto la valigia li’ per strada e, a strati, avrei indossato tutto cio’ che avevo ma, nel tentativo, le mani mi si sarebbero congelate e quindi il gesto sarebbe risultato vano. Cosi’, citando ancora l’immenso principe De Curtis, ho “desistito” sperando che la buona sorte mi avrebbe fatto sopravvivere alla lunga fila per i taxi.

Una volta dentro sapevo, infatti, che sarei stata salva, anzi, vittima della necessita’ contraria di spogliarmi per difendermi dai 30 gradi interni al veicolo. L’inverno a New York, infatti, obbliga ad un’attivita’ costante di vestirsi e spogliarsi senza sosta, visto il continuo passaggio da temperature polari a temperature equatoriali. Per un dettaglio che sfugge alla mia piccola mente, l’obiettivo e’ che nelle case si possa continuare a stare in maglietta e pantaloncini, come se fosse il 15 di agosto a Catania.

Non di rado, infatti, sono stata vittima di una deduzione errata (caldissimo dentro, quindi tiepido fuori) e mi sono ritrovata per strada a battere i denti con quei pochi pensieri che mi circolano nel cervello, completamente (e forse irreparabilmente) congelati. La mia salvezza, che mi impedisce di trasformarmi in una stalattite alla fermata dell’autobus, si chiama Dorothy ed e’ il mio cane: al mattino, subito dopo colazione (anche lei mangia yogurt rigorosamente bianco ma non beve caffe’), accompagno Dorothy nella sua passeggiata e li’ riesco ad accorgermi dei rischi corsi.

Otto volte su dieci, infatti, rientrata a casa, devo rivedere tutto il mio abbigliamento e aggiungere qualche strato, prendere cappello (mai usato in Italia), guanti e sciarpa coprendomi fino al punto di guardarmi allo specchio senza (intra)vedermi. A volte, poi, mi rendo conto che ci si abitua a tutto tanto che, anche io, ora, appena il termometro supera lo zero, cedo alla tentazione di mettere un giubbetto leggero e gli infradito e non mi stupisco nel vedere i ventilatori gia’ all’opera in molti appartamenti.

11/1/2010
  
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