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Calcio
Non dire falsa testimonianza in campo e ai giudici
I dieci comandamenti nel calcio - 8
di Mimmo Carratelli (da: Guerin Sportivo )
Dite la verità, qualche verità, almeno una verità, non tutta la verità, ma almeno l’ultima, l’essenziale, la decisiva verità. Così ritoccato, l’ottavo comandamento potrebbe squarciare molti veli in Italia e nel calcio italiano senza essere tremendamente assolutista, non dire falsa testimonianza, in un paese di poeti, santi, navigatori, infedeli e bugiardi. Di quanta sincerità, lealtà, testimonianze genuine, anche confessioni e rivelazioni, abbia bisogno il calcio italiano, volgarmente deturpato, diabolicamente gestito e pesantemente condizionato, Dio solo lo sa e lo sapeva dall’inizio emanando l’ottavo comandamento.

Ma viviamo in un mondo reticente e omertoso, nel calcio e fuori, ricco di evasori di tasse e di ogni dovere, falsi testimoni, carte false, falsi in bilancio, passaporti falsi, false partite, acque acetose e false. Ma, come dice Vujadin Boskov, rigore c’è quando arbitro fischia. Non c’è rigore nel calcio italiano e nessun arbitro e giudice fischia.

Si registrano false testimonianze direttamente sul campo.

Il guardalinee bolognese Giuliano Sancini, con negozio di bigiotteria nella città emiliana, sbandierò una falsa testimonianza quando, Juventus-Roma 0-0 del 10 maggio 1981 (la Roma a un punto dalla Juve capolista), segnalò un fuorigioco di Falcao sul gol segnato da Turone, passato alla storia delle maledizioni e del raccapriccio antijuventini. L’Avvocato accettò il regalo e, allo stadio, disse al sindaco di Roma Petroselli: “Voi avete il papa, Andreotti e il sole, lasciateci lo scudetto”.

Il fuorigioco c’era? Questione di un centimetro. No? Sì? Il geometra Boniperti spedì all’ingegnere Viola, presidente della Roma, un centimetro d’oro. L’altro rispose piccato: “Questo è uno strumento per geometri, gli ingegneri non ne hanno bisogno”. Nove anni dopo, il livornese Paolo Bergamo, che aveva diretto quel Juve-Roma, confessò a Turone: “Per me il gol era buono, ma vidi la segnalazione del guardalinee”.

Juventus-Inter (1-0) del 26 aprile 1998, l’Inter a quattro punti dalla Juve per lo scudetto. Dirige il livornese Piero Ceccarini, una triglia d’arbitro, impiegato di banca, assicuratore e promotore finanziario, pescatore, calciatore di spiaggia, definito un cretino da Emilio Fede dopo un Milan-Parma, con scuse successive, e di cui Mazzone diceva “Ceccarini non vede mai nulla”. Falsa testimonianza immediata per il fallo da rigore dello juventino Iuliano su Ronaldo. Non concede il penalty. Condannato all’inferno. Dirottato al purgatorio tre mesi dopo quando confessa: “Stavo guardando Zamorano e Birindelli che si spingevano in area e vidi solo l’ultima parte dell’azione fra Iuliano e Ronaldo”.

Un falso testimone del tempo fu Pierluigi Collina nel leggendario pomeriggio perugino del 14 maggio 2000. Diluvio universale. Campo-piscina. Non si può giocare. Ma si deve. Ultima giornata, si decide lo scudetto: Juventus punti 71, Lazio 69. La Lazio sta giocando con la Reggina. Alla fine dei primi tempi, la Lazio vince 2-0, lanciata al sorpasso tricolore, Perugia e Juve sono sullo 0-0.

Prova del pallone nella vasca da bagno del “Curi” dalle mani di Collina. Rimbalza? No. S’acquatta, s’ammoscia, s’infanga, si spegne. Nessun rimbalzo. Piove, prove, riprove, indecisioni e ripensamenti per 75 minuti. Si riprende a giocare alle 17, la Lazio ha chiuso 3-0 con la Reggina, alla Juve bruciano molte parti del corpo.

La falsa testimonianza di Collina è che si può giocare. Segna Calori dopo quattro minuti, espulso Zambrotta al 73’, la Juve annega nell’acqua di Perugia (0-1) e saluta lo scudetto.

Milan Rapajc, il croato birichino di Nova Gradiska, ingaggiato da Luciano Gaucci dopo una pantagruelica mangiata di pesce, infiammò Perugia per quattro anni alla fine dei Novanta. Era un asso fatto per gli olè. Dribbling e veroniche, serpentine, venti gol col piede fatato, capelli al vento e calzettoni abbassati.

6 aprile 1997 al “Curi”. Il Napoli va in vantaggio con uno dei rari gol di Aglietti. Rapajc acciuffa il pareggio. Proteste napoletane: il croato ha segnato con una mano. L’arbitro Nicchi prende le proteste e il coraggio a due mani e chiede al giocatore: “Hai segnato con la mano?”. L’italiano del croato Rapajc non è perfetto, ma lui dice proprio di no: “Ho segnato col viso”. Insomma, prima ci aveva messo la faccia e, dopo, la perde completamente nella falsa testimonianza all’arbitro.

E le false testimonianze dei cascatori? Il popolare Lulù Chiarugi, toscano di Ponsacco, 87 gol in carriera, del genere meglio un morto in casa che un pisano in area di rigore, è scivolato a lungo sulla falsa testimonianza del suo equilibrio in campo. A Udine, 12 maggio 1985, il supremo Maradona fece la prova generale del mondiale gol di mano all’Inghilterra segnando con la manina il 2-2 del Napoli e guardando l’arbitro Pirandola con una faccia d’angelo. Zico gli disse: “Se sei un uomo onesto, confessa all’arbitro che hai segnato con la mano”. L’irresistibile Dieguito si mise sugli attenti davanti a Zico replicando: “Sono Diego Armando Maradona di professione disonesto”. Mai un pentito sui campi di calcio.

Anzi, uno c’è stato e per poco il suo presidente non lo mandava al rogo. Pippone Maniero, centravanti-corazziere di un Venezia con l’acqua alla gola, si procurò astutamente un rigore contro lo slovacco Gresko dell’Inter. Falsa testimonianza istantanea e pentimento successivo a partita conclusa: “Ho accentuato la caduta”. Il presidente veneziano Zamparini andò su tutte le furie per la confessione del suo giocatore: “Maniero andrebbe squalificato per quattro giornate”. Conclusione del pentito della falsa testimonianza: “La sincerità non paga nel calcio, meglio essere furbi e bugiardi”. Più preciso Davide Fontolan quando abbandonò il calcio: “Me ne vado da un calcio falso, sporco e ipocrita. E’ un mondo di bugiardi”.

Nel processo alla Gea, sono stati formalmente accusati di falsa testimonianza Fabio Capello e l’ex dirigente della Juve Antonio Giraudo. Il presidente di Mediobanca Cesare Geronzi, nella lite giudiziaria con Luciano Gaucci, è stato messo sotto inchiesta per false informazioni al pm sulla vendita del giocatore giapponese Nakata dal Perugia alla Roma.

Acqua azzurra, acqua chiara, acqua sporca, Acqua Acetosa. Il laboratorio degli inganni. Provette congelate, scongelate, manomesse. Perizie e peripezie. E’ il grande scandalo del 1998. Cinque indagati e due avvisi di garanzia per abuso d’ufficio e falso per sottrazione. I dottori vengono cacciati dal tempio dell’antidoping. I vertici del calcio tremano. Indagano due procure. Flaconi sequestrati. Puzza il calcio marcio e la puzza finisce sotto al Nas. Il Coni, responsabile del laboratorio dell’Acqua Acetosa, chiude la sua inchiesta così: “Il doping nel calcio non esiste”. Fa eco Marcello Lippi: “La verità è che nel calcio il doping non esiste”. Non sono false testimonianze, ma testimonianze farse.

All’Acqua Acetosa controlli parziali, sparizione di documenti. Il laboratorio viene chiuso. Nizzola geme: “C’è stata colpa, non dolo”. Il presidente del Coni Mario Pescante rivela: “Solo i verbali analitici del calcio venivano buttati, quelli degli altri sport no”. Poi si dimette. E’ il capo dello sport italiano e ne diventa il capo espiatorio.

Lo scandalo del doping insabbiato nel calcio dura diciotto mesi. Poi si sgonfia. Le procure archiviano. Il Cio riaccredita il laboratorio romano. Sei società sospettate, nessun colpevole. Nandrolone, ma quale nandrolone? Voltaren potenziato, fornitrice una farmacia bolognese, ma quale voltaren? Tutt’al più i calciatori prendevano lo sciroppo contro l’influenza.

Trentaquattro anni prima, il doping coinvolge cinque giocatori del Bologna beccati dopo la partita col Torino. I bolognesi stravincono (4-1), non c’era bisogno di additivi. Ma le analisi sono impietose. Il Bologna lotta per lo scudetto con l’Inter (19^ giornata: Bologna 30 punti, Inter 27 con una partita da recuperare). Partita col Torino data persa ai bolognesi, afflitti anche da un punto di penalizzazione.

Chi vuole eliminare il Bologna dalla corsa per lo scudetto? L’Italia si scatena contro l’Inter di Herrera, ma il club nerazzurro non c’entra. Tre avvocati bolognesi scendono in campo sostenendo che le provette con le urine dei cinque bolognesi custodite al Centro medico di Coverciano sono state manomesse. Prove, controprove e provette che, per giunta, conterrebbero dosi esagerate di anfetamina. Avrebbero ucciso un cavallo, i giocatori del Bologna sono invece vivi. La Caf riabilita il Bologna e gli riconsegna i tre punti. L’inchiesta fa morire di crepacuore il mitico presente bolognese Renato Dall’Ara.

Il Bologna vince allo spareggio con l’Inter lo scudetto 1964. Il doping è uno strascico lieve. Il calcio dà un’altra falsa testimonianza. Doping, e chi ha detto doping?

12/8/2008
  
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