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Recensioni
Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati
di Luigi Alviggi
Nel mondo il morbo di ALZHEIMER è oggi la forma più diffusa di demenza senile con sintomi principali la perdita di memoria e delle capacità intellettive, dunque una perdita progressiva dell’autonomia finendo col trasformare lo sventurato malato in un essere vegetale incapace di risposta ad alcuno stimolo esterno.

Alois Alzheimer (1864 - 1915), psichiatra e neuropatologo tedesco, è stato il primo a descrivere in dettaglio questa malattia scoperta in una sua paziente di 51 anni agli inizi del XX secolo. Da poco si è compreso, attraverso lunghi studi, che sono presenti in tali malati forti alterazioni di due proteine cerebrali che portano alla perdita funzionale dei neuroni, cellule base del cervello. Di recente pare si sia trovato un farmaco, ora in sperimentazione, che riesce a bloccare la progressione della malattia.

Lino e Chicca sono una coppia di coniugi sulla sessantina viventi a Roma, lui bolognese e rinomato giornalista, lei romana, di ottima e numerosa famiglia, docente di Filologia Medievale alla Sapienza. Una coppia senza figli ma affiatata, con una routine serena, che si ama ancora come nei primi giorni.

Lino lo seguiamo sin da ragazzo nelle difficili prove di vita che presto lo colpiscono. Rimane orfano: i genitori muoiono in un incidente d’auto - probabilmente stavano litigando per le infedeltà di lui - e sopravvive solo il cane del babbo, Perché.

Saranno la zia Amabile, sorella della mamma, e il marito Adolfo, senza figli anche loro, ad accoglierlo in casa. Andrà poi in collegio diplomandosi ragioniere. Il libro segue il protagonista in due fasi di vita, alternate nella narrazione: 13nne appunto presso gli zii a Sasso Marconi, subito dopo la disgrazia, e nell’oggi romano sin dal primo manifestarsi del dramma personale.

Gli amici più vicini nel periodo adottivo sono due fratelli, Nerio e Leo. Gioca con loro al passatempo preferito: la corsa con i tappi metallici di bottigliette. All’interno di ciascuno ha incollato la foto di un ciclista celebre all’epoca e, barando, vince sempre. Al suo tappo, con dentro l’immagine di Nencini, ha limato i bordi metallici facendolo rotolare più veloce. Leo, invidioso di questo e del cane, suo inseparabile compagno, gli racconta una balla su proprie capacità sovrannaturali e progetta un pessimo inganno con la complicità di una ragazzotta, Leda, sempre disponibile a fare la “lotta” (ma senza eccessi) con i maschietti del posto.

Lino, stimolato da lei, finisce col farla nella stanza da letto degli zii ma, a lotta terminata, Leda resta a terra immobile. Terrorizzato dal fatto e per il luogo dove giace la “morta”, corre a chiamare in soccorso Leo che, per “resuscitarla”, chiede in cambio il cane. Si accordano infine solo per un prestito e, fattolo uscire dalla stanza, il furbastro compie il “miracolo”. Lino, partito poi per il collegio, li perderà di vista.

La passione giovanile come giocatore di calcio tramonterà presto per le scarse doti ma Lino la riverserà immutata nella cronaca relativa, divenendo un celebre giornalista sportivo. Chicca inizia a vivere in prima persona i prodromi della malattia, vedendolo svanire un pizzico per volta. A iniziare dalla parola che non ricorda, chiesta per il “pezzo” in scrittura, e poi via verso il peggio in un crescendo allarmante. Si dà allora da fare in ogni modo per bloccare l’inarrestabile. Ha un fratello primario neurologo come il papà ma, all’inizio, tace la cosa ai parenti. Lino non è mai stato ben accetto in famiglia, e lei ha anche pensato che al defunto padre non fosse dispiaciuta la loro assenza di prole.

Di questi suoi primi, ma sempre più frequenti, momenti di smemoratezza al principio decisi di riderne. E anche Lino ne rideva.
Nell’arco di pochi mesi, però, si tradussero in una mia costante preoccupazione.
”.

Percorriamo con Lino, una per una, le disastrose tappe che lasciano scendere poco per volta il condannato sino al fondo dell’irrisalibile abisso in cui il cervello precipita senza possibilità di intervento. Una vera e propria discesa agli inferi anche se, a differenza di questa, ad attendere al fondo c’è un’insperata oasi di pace assoluta.

È quella in cui più nulla esiste nell’individuo colpito, divenuto un guscio vuoto. Ha perso ogni connotazione vagando in un universo indistinto fatto di solo presente (e per giunta compromesso) e vegetando in un mare oscuro ove non esiste varco per luci. Un regno di vita “solitaria” dove non c’è spazio per altri e men che mai per il sé preesistente.

Anche i sensi si affievoliscono - scompaiono affetti, legami, obblighi, timori, paure, sensazioni -, una morte mentale in un corpo che sopravvive per conto suo.
Si susseguono i giorni, uno uguale all’altro, senza cambiamenti: il cielo è sgombro ma non ha chi possa ammirarlo. L’orizzonte cognitivo si è ristretto sino a scomparire e ogni memoria si è spenta nel nulla. All’essere, che umano più non è, resta l’unico dono di nemmeno riconoscersi. Una regressione progressiva che lascia ultime - superbe nell’antica dominanza di quando il presente in memoria era minimo, quasi inesistente - le immagini della fanciullezza, all’inizio in massa ma che vanno presto sfoltendosi fino - per quanto ne intuiamo - a restare solo le prime nate, che ancora ristanno in mente perché le fondamenta, nel bene quanto nel male, sono sempre ultime a scomparire.

L’idea che stesse lasciandomi era insopportabile.
Che non ci dovesse essere niente, cazzo!, niente, cazzo!, niente, cazzo! per trattenerlo.
Non era possibile che Dio, che non aveva voluto darmi un figlio mio, mi portasse via l’unico essere al mondo che contasse davvero qualcosa per me...
”.

Lino all’inizio nega con tutti ogni problema, ma poi l’evidenza dei suoi vuoti in tv, le assenze in presenza, e le incongruenze degli articoli scritti, nei quali improvvisi si intromettono assurdi ricordi infantili, affondano ogni finzione. Continuerà a negare i disturbi con tutti, parenti, colleghi, amici, conoscenti, non rendendosi conto di quanto il proprio comportamento deponga all’opposto di quanto afferma.

Alla festa di saluto del giornale, comprensivo della situazione, dopo un normale inizio di discorso divaga a parlare di particolari della sua prima notte di nozze. A questo punto nessuno vuole più coprire le enormi inefficienze, testimoni inequivocabili di un totale scompenso, e subirà il generale rigetto.

In un nucleo di sole due persone è chiaro che sarà l’altro a subire l’urto frontale di ogni alterazione, dalla negazione dei fatti al diniego di ogni squilibrio, fino all’inevitabile fase aggressiva e violenta. Il malato addossa la colpa del terribile malessere provato a chi più è vicino e lo ha amato nel tempo precedente. Chicca arriva a subire la violenza fisica del marito, espressione di un odio intenso del momento, ma avrà ancora la forza di proseguire nei pochi alti e troppi bassi successivi.

Quella notte, quando me lo trovai fra le braccia, improvvisamente così fiducioso, così docile, così fragile, ebbi la sensazione che nella mia vita stava accadendo qualcosa di terribile e di magico... Che Lino, per un tempo che non mi era possibile immaginare ma che volli illudermi potesse non finire mai, stava diventando quel bambino che non avevo mai avuto... ma che in quei giorni era mio, e io avrei dovuto essere la sua mamma, almeno fino a quando mi sarebbe scappato via e io non avrei saputo dove si fosse andato a nascondere...”.

Un amore fortissimo che si trasfigura in amore materno per l’uomo tornato bambino...
Poi Chicca deve soccombere e rassegnarsi a chiedere l’aiuto di altri. Dapprima tenta la terapia di uno psichiatra, che nei primi tempi migliora parecchio la situazione. Poi, svanendo l’effetto, continua a illudersi nella carezza mentale di un’antica promessa fattale dal promesso sposo, un suggello d’amore: “dopo 50 anni insieme ti risposerò di nuovo”.

Il male, però, sconfina senza sosta e si confida finalmente con la sorella Teta. L’intervento del fratello neurologo la convince a cessare la convivenza abbandonando casa e marito in mano a badanti esperte. I continui regressi si sono ripercossi alterando la psiche della povera donna che finisce con l’essere la pallida ombra del prima, e la situazione peggiora sino all’inverosimile.

Pupi Avati (Bologna, 1938) è un celebre regista, sceneggiatore, scrittore, e tanto altro, con all’attivo decine di film magistralmente diretti. Nell’omonimo film del 2010 - protagonisti Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri - racconta questa vicenda attraverso la bellezza e la potenza delle immagini. A ispirarlo dichiara essere stata una situazione analoga sofferta dal suocero.

La pellicola risponde in pieno al libro o, meglio, questo è quasi la sceneggiatura dell’altra. Molto bravi i protagonisti, lei in particolare, nel rendere visibili le tappe del degrado. Quello maschile lo riduce al bimbo di un tempo, quello di lei non fa più trovare la forza per dedicarsi ai compiti amati. Riflesso della continua afflizione nella persona più coinvolta, e quindi più toccata, è il venir meno della volontà su ogni obbligo precedente. Molte scene, di forte drammaticità, fanno ben comprendere il danno devastante che il problema determina in una normale famiglia.

Di film sull’Alzheimer se ne sono fatti molti... ma voglio qui ricordare anche “Still Alice” (2014), - “senza ricordi non c’è presente” - tratto dal libro “Perdersi” (2007) di Lisa Genova (USA, 1970), neuroscienziata, che sviluppa la tragedia sul versante donna.

Ottima Julianne Moore che, per questa interpretazione, vinse l’Oscar 2015 come miglior attrice. Alla soglia dei 50 insegna alla Columbia University, linguista e docente affermata. Vive a New York con un marito (Alec Baldwin) e tre figli, due femmine e un maschio. Anche qui iniziale la dimenticanza di una parola in una conferenza specialistica per poi peggiorare inesorabilmente, fatto che Alice tenta di contrastare affidando al cellulare i suoi dati più importanti per ripescarli quando servono. Due diversità principali tra gli ottimi film.

Avendo una famiglia larga i problemi, più ampi e diversificati, rendono diverse scene ancor più commoventi per il conflitto tra il ritardo dei cari nel focalizzare la situazione e la maggiore difficoltà del soggetto a mantenere più livelli relazionali esistenti.

La seconda è la presenza nel film di diversi incontri tra paziente e neurologo che, oltre a farci entrare nelle procedure e nei test di indagine, ci aprono all’aspetto scientifico e alle previsioni mediche che puntualmente si avverano.

Si accerta, data la “giovane” età di Alice, che per lei si tratta di un male ereditario che potrebbe avere trasmesso ai figli. Quando informati, la prima risulta positiva, il maschio è indenne, l’ultima non lo vuol sapere. Il declino è più dolce ma, colpi letali, il non ricordare dov’è il bagno in casa o, altrettanto sconvolgente, facendo jogging a poca distanza da casa di fronte alla sua università non riconoscere più la via del ritorno. Le emozioni femminili, sempre più diversificate, accendono momenti di forte partecipazione nello spettatore.

Struggente l’immedesimarsi nel tracollo di una vita, impegnata su più fronti, che si spegne fino all’ultimo stadio mentale. Ultimo successo per Alice l’intervento all’Associazione sull’Alzheimer che termina con la “standing ovation” dei presenti. Per non perdersi lei ha scritto il discorso - molto personale - ed è costretta a segnare man mano il già letto con un pennarello per non vedersi ridotta a ripetere più e più volte lo stesso rigo!

Tornando a Lino, un barlume improvviso di inspiegabile coscienza lo farà tornare nel luogo dove lo ospitarono gli zii. La prima cosa a colpirlo, giunto lì, è l’avvertire gli identici odori di decenni addietro, una conferma che nulla sia mutato.

Un comprensivo tassista, ripulito ladro “gentiluomo”, lo guida - cosa non facile - a ritrovare il vecchio Nerio e allora un lui, molto predisposto, può spiccare il volo sulle ali del tempo passato. Nerio lo informa della morte di Leo e, richiesto, tutti insieme muovono a visitare la tomba di quegli che credette capace di resuscitare la “morta”.

Ciò che vuole, ostinato, è fargli ripetere oggi il “miracolo” a beneficio di chi, creduto morto, è rimasto nel cuore quale ultima scintilla di vita. Un motivo incomprensibile lo ha spinto alla fuga solitaria verso le ombre del passato, recuperate per puro caso. Avverte l’obbligo di dover fare tutto il possibile per salvare l’esistenza della cosa rimasta più cara!

Questa volta la fortuna si commuove, guidando a ciò che resta del ladro di cane il bambino di allora e, insieme, allo stesso Perché che giunge abbaiando festoso. Insieme, e felici più di allora, - ...in virtù certo del prezioso cunicolo spazio-temporale (o ponte di Einstein/Rosen per i cultori nel campo) in cui si sono infilati... - sono pronti a correre verso la nuova vita che li attende… (quella invano sperata da ognuno per ricominciare tutto da capo!), sicuri adesso di percorrerla in maniera molto migliore.

L’unica impossibile via d’uscita verso la normalità perduta... e fantastico cammino verso lo “sconfinato” futuro!

È andata così che, con tutti i miei (parenti) contro, mi sono intestardita e ho sposato proprio lui. E la cosa più stupefacente è che, se me lo si chiede oggi, dopo così tanti anni, be’, non mi sono pentita...”
“Il bambino e il suo cane correvano via, sempre più lontano, nella terra dura e gelata del campo
.”.
Luigi Alviggi
Pupi AVATI: Una sconfinata giovinezza
Garzanti, 2010 - pp. 160 - € 14,00
6/12/2021
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