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Recensioni
Nella quiete del tempo di Olga Tokarczuk
di Luigi Alviggi
Una bella fiaba di quelle che dovremmo averne in numero maggiore noi adulti - sia più che meno avanti negli anni - per ricordarci, sempre e spesso, che il mondo che corre oggi non è l’unica realtà possibile, e certamente non quella più soddisfacente per (quasi) ogni essere umano.

Singolarità nella singolarità, anche il linguaggio si accorda al sottofondo fiabesco divenendo una miscela di mistero ed evidenza, capace di destare nel lettore risonanze lontane da stupire verso l’inconsueto. Siamo di fronte a un gigantesco affresco della vita al fuggire degli anni in un piccolo villaggio: Prawiek - cioè “tempi remoti” in polacco - nella zona di Cracovia.

Si parte dal 1914 per osservare, attraverso la lente deformata dalla lontananza dagli scenari primari, le due guerre mondiali con il carico smisurato di morti, follie, catastrofi e sventure collegate (specie nella seconda), e la Polonia racchiude nella sua storia ben due tragedie successive. È stata la prima a essere percorsa e percossa prima dai nazisti (01.09.39) e poi dai russi: due razze di belve diverse eppure accomunate, nell’occasione, in troppi punti da delitti e violenze professati quali unici dei.

Si passa poi agli anni della rinascita postbellica in un orizzonte che, nell’immediato, appariva diverso – Ecclesiaste 3,3: “… un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per distruggere e un tempo per costruire …” - ma che, andando avanti negli anni - solo un breve alito nel tempo - avrebbe ancora una volta rivelato miopia, avidità e indifferenza reciproca del genere umano.

Questo villaggio, ai suoi confini, è guardato nei quattro punti cardinali da altrettanti arcangeli: Raffaele, Uriele, Gabriele, Michele, ma non pare che questo basti... E proprio qui, in questo luogo che sembra essersi rifugiato tutt’intero “nella quiete del tempo”, anche qui come ovunque, il tempo corre la sua pazza corsa, saturando ogni giornata d’eventi d’ogni tipo. E, dunque, nel suo piccolo, la storia di Prawiek è la storia del mondo in ogni sua parte, per quanto essa possa essere remota dalla memoria degli uomini.

Il passo della Tokarczuck, che in questo lavoro si avventura sino agli anni ’60, è sì d’altri tempi, qualche volta stagnante, ma è forse un ritmo del quale abbiamo smarrito cognizione, di sapore definito, di maggior spessore e di minor degrado. Richiede un esercizio di pazienza, e anche questo ha molto da insegnarci: è una rassegna di decine di compaesani – una galleria di archetipi? - visti nella loro realtà e seguiti nella loro vita, ricca di gioie, poche, e turbamenti, molti. L’Autrice è pervasa da un animismo spinto.

Nella sua visione, ogni “modo d’essere” sulla terra ha dentro una sensibilità: piante, animali, cose, hanno una percezione, nulla di simile a quella umana, ma piuttosto collettiva, di genere. Ciascuna espressione del reale ha un proprio punto di vista, senza priorità né gradualità d’importanza. La terra è il risultato dell’insieme di queste innumerevoli (o fantastiche se preferite) realtà: in un mandala di diversa natura, Prawiek si propone per rappresentare il microcosmo dell’universo.

Immaginare è in sostanza creare, gettare un ponte tra materia e spirito. Soprattutto quando lo si fa spesso e intensamente. L’immagine si trasforma allora in una goccia di materia e si inserisce nel flusso della vita. Capita che lungo la strada qualcosa si deformi e cambi. Di conseguenza tutti i desideri umani, purché abbastanza forti, si realizzano, ma non sempre esattamente come ci si aspettava.

Per ciascun attore nel libro c’è il suo tempo, a volte sonnolento, a volte guizzante, un qualcosa che si presta, disponibile, ma non permette ad alcuno di sciuparlo... il tempo della giovinezza e quello della vecchiaia, il tempo dell’allegria e quello del dolore, il tempo della saggezza e quello della pazzia, il tempo dell’amore e quello della solitudine…

E non solo per gli uomini, dunque, ma anche per gli animali, i vegetali, il circostante, gli oggetti: nuovo o vecchio, bello o brutto, funzionante o guasto, per tutto è possibile trovare spazio e significato. Possiamo così sapere che “gli angeli custodi dei serpenti sono draghi”; o l’esistenza dell’” ignis fatuus ovvero Gioco istruttivo per un solo giocatore”, arcano e incomprensibile, regalato al castellano Popielski da uno sconosciuto rabbino guaritore, scovato dalla moglie per farlo rinsavire da un amore passeggero dagli strascichi disastrosi.

Consegnato in una scatola di legno con un misterioso libricino di istruzioni, il gioco da tavolo si rivelerà una partita inesauribile in cui ogni passo deve essere preceduto da un evento specifico che accadrà al giocatore, una sequenza che catturerà totalmente l’uomo trascinandolo fuori rotta negli otto mondi creati da Dio. Morirà quando, persi beni e castello con l’avvento del comunismo, non potrà più giocarvi.

Ma i mondi proseguiranno per conto loro, fino all’ultimo, in una rilettura fantasiosa della creazione. E Dio pensa: “Creare mondi non arriva a nulla, non porta a niente, non sviluppa, non amplia e non cambia nulla. È inutile.”

Il Gioco è una specie di percorso che presenta di volta in volta delle scelte, suonavano le prime parole. Le scelte si realizzano automaticamente, anche se a tratti il giocatore ha l’impressione di compierle in maniera consapevole. In questi casi può essere assalito dallo sgomento, poiché in tal modo si sente responsabile di dove verrà a trovarsi e del destino che gli toccherà. (…)
Il Gioco è un piano di fuga che ha inizio al centro del labiarinto. Lo scopo del Gioco è passare attraverso tutte le sfere e liberarsi dalle pastoie degli Otto Mondi.


La narrazione trascende man mano verso il surreale, ma non è di questo costruito il regno delle favole? Un mondo distinto ove possono avvenire cose diverse dalle usuali, davvero istruttive per varcare i limiti soliti dei pensieri capestro, spesso carnefici delle loro vittime. Usciamo dai confini del sogno perché i personaggi agiscono nel reale ma è una realtà allucinata percorsa da lampi, immagini ignote, confini evanescenti, un qualcosa che avrebbe bisogno di essere compreso dalle fondamenta, cosa certo alla portata di pochissimi.

Non ci sono protagonisti ma è l’intera Prawiek a trar vita dalle tante pagine. Un rapporto sublime quello tra uomo, suoi simili e mondo, eppure quante falle cela all’interno: una struttura precaria e difficilmente correggibile nella sua eterna instabilità.

E così, nella sequenza dei tanti tempi diversi - titolo ricorrente dei brevi paragrafi - la vita si incammina con il sempiterno passo vacillante, e di ciascuno dei personaggi, quasi una sequenza di foto scattate in successione, seguiamo il procedere, più o meno ordinato, lungo i varchi dell’esistenza.

Oltre il normale, il posto d’onore va certo riservato al fantastico: un quadro della Vergine in chiesa parla per proteggere l’unico compagno di una vecchia ormai fuori di senno: un cane più brutto e malandato della padrona; una processione interminabile di morti, finita la guerra, si vede in cammino lungo la via maestra del paese; gli angeli non stanno a guardare - non sono le stelle di Cronin - ma intervengono per sostenere anime in pena, però a loro modo perché non sono umani; la luna può chiedere a una donna di andare da una compaesana per farsi perdonare l’ossessione contro di lei; altri fantasmi, come quello di un annegato che staziona nelle paludi vicino; l’esistenza di un limite ben definito intorno al villaggio, al di là del quale è impossibile andare per tutti: chi vi arriva si arresta pietrificato e, tornando indietro, può solo raccontare di suoi sogni; l’esistenza di un altro mondo in cui le cose vanno alla rovescia; la crescita costante del micelio che poco alla volta, sotto la crosta, si è impadronito della terra: nei boschi, sotto le strade, lungo i muri delle case, ovunque.

Gli esseri umani credono che all’origine della follia ci sia un avvenimento significativo e drammatico, una sofferenza intollerabile. Credono che debba esserci un motivo per impazzire: l’essere abbandonati dalla persona amata, la morte di chi ci è più caro, la perdita dei beni, la visione del volto di Dio. Gli esseri umani pensano anche che si impazzisca all’improvviso, di colpo, in circostanze straordinarie, e che la follia piombi sull’individuo come la rete di un cacciatore, impastoiando l’intelletto e confondendo i sensi.

La trama segue lo scorrere della vita nelle varie esistenze, distinte ma raccordate da un filo comune, impossibile a conoscersi per gli umani sommersi nel mare di cose che non possono comprendere. Un’epopea collettiva in cui si incrociano e accavallano vicende singole che in qualche modo vanno a influenzare il destino di molti, articolando e determinando l’avanzare collettivo nello sperduto villaggio.

C’è tutto l’insieme di cose abituali nella vita di ciascuno, amori, delitti, gioie, malattie, dolori, matrimoni, parti, lutti, e sparizioni inspiegabili. Arriviamo al termine del percorso con l’impressione di aver guardato in un caleidoscopio nel quale, al minimo movimento di un unico pezzo, è tutto l’insieme a mutare, e di tantissimo, l’aspetto. È il panorama rutilante della vita indagata nelle sue mille facce attraverso il procedere casuale, eppur metodico, dell’Autrice.

Ci sono due modi di apprendere. Dall’esterno e dall’interno. Il primo è considerato il migliore, se non l’unico. Perciò gli uomini acquisiscono conoscenze attraverso i viaggi in terre lontane, con l’osservazione, la lettura, le università, le conferenze: traggono insegnamento da quanto accade fuori di loro. L’uomo è una creatura sciocca, ha bisogno di imparare. E così fa aderire su di sé il sapere, lo va raccogliendo come un’ape e via via lo accumula, per poi usarlo e trasformarlo. Questo però non cambia quel tanto di “sciocco” che è in lui e che ha bisogno di apprendere. (…)
Il sapere del quale si ricopre non cambia nulla nell’uomo, o lo cambia solo in superfice, come un abito ne sostituisce un altro. Invece, chi impara assorbendo le cose dentro di sé è sottoposto a incessanti mutamenti, perché ingloba nella propria esistenza quello che impara.


Olga Tokarczuk
(Polonia, 1962), è una psicologa junghiana, Premio Nobel per la Letteratura nel 2018: dalla motivazione di tale premio citiamo le parole “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”.
Questo lavoro è stato pubblicato in patria nel ‘96 con il titolo “Prawiek i inne czasy (Prawiek e altri tempi) ” ed è uscito in Italia nel ’99, passando sino a oggi per tre diversi editori. Dell’89 è invece il primo libro di Olga, “Miasta w lustrach (Città allo specchio)”, una raccolta di poesie.

Il racconto si chiude con la morte di Misia e Izydor, forse i protagonisti non dichiarati, e con un passato che inutilmente si riaffaccia al borgo natio dopo più di un quarto di secolo. Il tempo non perdona le discontinuità, specie all’uomo, animale insignificante più di altri e il silenzio non può che cadere, inevitabile, su novità da nessuno cercate. Per chi poi ha infranto certe leggi non scritte resta solo una delusione profonda, meglio un’angoscia incolmabile, che l’accompagnerà in ogni suo giorno a venire.

L’uomo aggioga il tempo alla propria sofferenza. Soffre a causa del passato e proietta la sofferenza nel futuro. Così facendo, crea la disperazione.

E la lapide posta all’ingresso del cimitero di Prawiek recita:
Dio vede.
Il tempo fugge.
La morte incalza.
L’eternità aspetta.
Luigi Alviggi 
Olga Tokarczuk:
NELLA QUIETE DEL TEMPO
traduzione di Raffaella Belletti
Bompiani, 2020 – pp. 320 - € 18,00

21/11/2020
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