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Cultura
Pupella Maggio: la donna e l’artista
di Antonio Magliulo
“A due anni mi portarono in scena dentro uno scatolone, legata proprio come una bambola (pupatella) perché non scivolassi fuori. E così il mio destino fu segnato” racconta Pupella Maggio nel volume autografo: “Poca luce in tanto spazio”.

Pupella, il cui nome di battesimo era Giustina, era figlia d'arte, nel vero senso del termine: aveva sette generazioni di attori alle spalle, da parte di madre, un paio da parte del padre ed un nonno titolare di un piccolo circo equestre.

Pupella nacque a Napoli il 24 aprile del 1910 in un camerino del teatro Orfeo e fu una delle sedici creature, che la madre mise al mondo. Non tutte sopravvissero, solo sei ce la fecero e diventarono attori, ballerini e cantanti di varietà.

Pupella cominciò a calcare il palcoscenico sin da piccola e a sette anni aveva già i suoi ruoli fissi nella compagnia di famiglia, che recitava la sceneggiata e le farse di Antonio Petito.

Più grandicella, fu scritturata da varie compagnie di rivista e avanspettacolo. A seconda dei casi, recitava, cantava o ballava. Lavorava in piccole compagnie, che giravano l’Italia meridionale e si spingevano a volte in lunghi viaggi fino a Tunisi e Bengasi.

La vita era piuttosto dura per gli artisti di quel genere e Pupella, quando la rievocava, non nascondeva che l’aveva abbracciata più per bisogno che per una scelta sentita.

Durante la guerra abbandonò il teatro ed andò a fare l'operaia presso le acciaierie di Terni, ma anche lì finì per mettere su uno spettacolo con le addette alla mensa. Nel dopoguerra, riprese a esibirsi in varie compagnie napoletane di secondo piano, fino a quando fu scoperta da Eduardo De Filippo.

Da lì cominciò la sua ascesa e prese a ricoprire ruoli che erano stati di Titina De Filippo: da Filumena Marturano a Natale in casa Cupiello.

Il pubblico la salutò come una grande interprete e Luchino Visconti la volle con sé, nell’Arialda, di Giovanni Testori, accanto a Paolo Stoppa e Rina Morelli. Con Alberto Sordi lavorò nel Medico della mutua e nel successivo, Prof. dott. Guido Tersilli, primario di villa Celeste.
Anche Fellini la chiamò per assegnarle un bel ruolo in Amarcord; e per lei Giuseppe Patroni Griffi scrisse una delle sue opere più belle: Visita ad una signora amica.
Dopo i settanta anni, la sua carriera si arricchì di esperienze nuove ed importanti, fra le quali la partecipazione al fim di Tornatore: Nuovo Cinema Paradiso, nel quale offrì una prova di straordinario valore espressivo.

Fu La Madre nell'opera di Bertold Brecht e la Madonna in quella di Jacopone da Todi. Recitò Aspettando Godot di Samuel Beckett e Aspettando Amleto di Mario Prosperi ed Antonio Calenda.

Quest'ultimo le riservò una bella sorpresa, facendola rincontrare in palcoscenico con i fratelli, Rosalia e Beniamino. La carrellata di vecchie macchiette cucite apposta per loro s’intitolava: 'Na sera 'e Maggio.

Alla vigilia degli ottant’anni aveva dato l'addio alle scene, nonostante le pervenissero ancora varie richieste di lavoro e fosse sorretta da una buona salute. Ma di recitare, o almeno di sottoporsi alla routine delle prove teatrali, non le andava più.

Preferiva insegnare ai giovani a Roma e a Todi, dove aveva acquistato una casa, concedendosi di tanto in tanto al cinema, infatti apparve in Sabato, domenica e lunedì di Lina Wertmuller.

La sua ultima apparizione in tv risale al 1991, nella serie Il ricatto. Colta da un ictus cerebrale, scomparve l’8 dicembre del 1999. "Ora il teatro, non solo quello napoletano, è più povero. Era più di una grande attrice, era un'artista di razza, come se ne trovano sempre meno". Fu il commento di Luigi De Filippo alla triste notizia.

Pupella non frequentò mai una scuola o un’accademia d’arte drammatica, se non quella delle nude tavole del palcoscenico e di una ricerca personale rigorosa e attenta. Fu artista pura, nel senso che tutto ciò che faceva le proveniva dall’anima e dall’esperienza diretta, maturata, giorno per giorno, a contatto con i colleghi ed i grandi protagonisti della scena.

Nonostante la mancanza di qualsivoglia insegnamento teorico, fu un’eccellente interprete, non soltanto del repertorio comico-dialettale partenopeo, ma di quello in lingua, cosiddetto "impegnato".

Tante le sue interpretazioni nel teatro e nel cinema, anche se in quest’ultimo non riuscì mai a dare il meglio di sé.

Memorabile e di estremo spessore drammaturgico la sua interpretazione de La madre, dove seppe dar prova d’intensità e misura non comuni, tali da competere con le più grandi interpreti teatrali di tutti i tempi.

E qui, volendo, potrebbe aprirsi una lunga parentesi sull’esistenza o meno del talento, come dote naturale e innata dell’attore, parentesi da affrontare con coloro i quali si ostinano a negare tale dote, temendo forse di dover riconoscere che vi sono al mondo qualità non comuni, che non si possono acquisire sui manuali o sui libri scolastici.

Sono, costoro, i fieri esibitori di diplomi in cornice, oppure gli ultimi difensori di concezioni viete e faziose, contaminate da un malinteso senso dell’egualitarismo, che si affannano a respingere tutto ciò che esorbita dall’ordinario, dall’uniformità e pertanto rifiutano parole come “estro”.

Estrosa, invece, e soprattutto libera, fu Pupella Maggio, che seppe ignorare le critiche sterili e preconcette, mosse talvolta al suo lavoro d’attrice, e fece sempre di testa sua.

Non ebbe mai soggezione di nessuno, nemmeno di Eduardo, che pure considerava, a ragion veduta, il sommo maestro, il "mostro sacro" della prosa.

Qualcuno sostiene che l’attrice avesse un carattere brusco, spigoloso, reattivo, ma non è vero: era una donna schietta, capace di dire pane al pane e vino al vino, ma capace pure di amicizia e solidarietà.

Veniva da lontano, Giustina Maggio, si era fatta da sola, lavorando e lottando e non accettava la prosopopea di tanti soloni che sputano sentenze e consigli, come fossero oro colato.

La verità è che non aveva bisogno di suggerimenti. Aveva il teatro nel sangue, pure se non nascose mai che la sua gioia più grande sarebbe stata quella di fare la modista.

Insomma, recitava spontaneamente, per istinto, e lo faceva egregiamente. D’altra parte, la storia del teatro insegna che si può diventare attori anche senza un "back ground" teorico alle spalle.

Tanti sono gli esempi, nel cinema e nel teatro. Tina Pica, Dolores Palumbo, Enzo Turco, Peppino De Filippo, Totò, etc non frequentarono mai alcuna accademia, eppure furono interpreti superbi, universalmente apprezzati.

Anche Pupella Maggio fu un’artista magnifica, non solo era convincente, ma riusciva addirittura a entusiasmare.

Non aveva studiato Stanislawski, ma sapeva aderire perfettamente ad personaggio, rendendolo suo proprio, attraverso un’immedesimazione sincera ed assoluta, sicché lo spettatore veniva assorbito dalla vicenda scenica.

Grazie al calore umano che sapeva trasmettere, creava una simbiosi singolare col pubblico e gli donava momenti di sublime emozione.

Di lei si è detto pure - in negativo - che poteva contare soltanto sull’espressione dolente del suo viso, come fosse una maschera tragica dipintale, per caso, dalla sorte. Tale espressione era sì una sua caratteristica, un segno distintivo inconfondibile, ma non ne costituiva certo il limite o la forza, perché Pupella poteva contare su una vasta gamma di facce, sfumature, intonazioni, gesti e posture; sapeva essere divertente o drammatica, senza particolari difficoltà.

I suoi occhi parlavano e la mimica facciale bastava a dire tutto. La sua voce modulata e tremula sapeva conferire alle battute un colorito del tutto singolare, inimitabile. Le sue doti più grandi erano l’umanità, il realismo e la misura, qualità rare.

Talune attrici, sue contemporanee, a cui venivano e vengono tributati grandi onori, pure avevano una piega amara e incancellabile sul viso. Talvolta, enfatizzavano certi stati d’animo, certi sentimenti, come se non riuscissero a separare del tutto persona e personaggio e a prendere le necessarie distanze dalla propria natura.

Pupella era esente da tutto ciò, applicava d’istinto quella regola aurea che vuole che l’interprete debba sempre servire il personaggio, per metterlo nella giusta evidenza e farlo risaltare; mai deve sovrastarlo con forzature o, come si dice in gergo, “gigioneggiando” o abbandonandosi a vezzi di primadonna, per riscuotere il consenso.

L’artista napoletana, che pure recava in sé i segni di una vita sofferta, seppe creare l’opportuna cesura fra finzione e realtà, sicché le sue interpretazioni furono sempre ben calibrate, e quella piega sul viso e quell’ombra amara negli occhi le servirono per meglio vestire gli abiti di scena, ma non la confinarono in un modello fisso, in un angusto cliché di “tormentata”.

Così fu "madre brechtiana”, "consorte eduardiana”, nonché “personaggio beckettiano” e seppe rendere, di volta in volta, sia il senso della fierezza e del sacrificio, sia quello del travaglio e della rassegnazione, non disdegnando ruoli di tipo umoristico, nei quali risultava efficacissima.

Molti la ricorderanno pure come attrice comica assieme ai suoi fratelli, oppure a fianco di Totò, nel film/commedia Il medico dei pazzi, nel quale interpreta la gustosa parte di una vedova inconsolabile e deve piegarsi alle esigenze del "buffo" e del "grottesco".

Ma la prova "storica" rimane certamente Natale in casa Cupiello, dove la sua statura artistica emerge in tutta la sua interezza.

L’attrice dà saggio di sé mettendo in scena un personaggio complesso e articolato, che sembra muoversi essenzialmente sul versante dell’ironia, ma che presenta pure, per converso, aspetti di sconcertante drammaticità.

Nel primo e nel secondo atto Pupella - che nella storia ricopre il ruolo di Concetta, moglie del personaggio principale - si trova a dover rendere diversi stati d’animo: fastidio, noia, sarcasmo, tolleranza, apprensione, cinismo, collera, sfinimento, etc.

Nel terzo atto, invece, deve apparire annichilita, distrutta dalla tragedia che si è abbattuta sulla famiglia Cupiello ed esprime questa sofferenza, questa disperazione alternando gesti di sconforto a moti parossistici, piuttosto plateali, come avviene talvolta fra la gente del popolo, vera, schietta, impulsiva, che non ha censure o soverchi riserbi e sente il quartiere, la piazza, la città tutta come palcoscenico dell’anima.
Nel capolavoro eduardiano l’attrice è chiamata, insomma, ad un compito assai impegnativo. E qui le vengono in soccorso le sue radici, il proprio patrimonio cromosomico e, non ultima, l’estrema confidenza con la scena che possiede soltanto chi ci è nato e vissuto.

Così, non appena la ribalta si accende e si leva il sipario, la donna cede il posto all’artista e la sala si riempie di gesti e di parole, di sussurri e di grida e il volto mutevole ed inquieto di Pupella-Concetta diviene non soltanto il volto di Napoli, ma quello dell’intera umanità.

24/3/2017
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